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"Una cifra estetica visionaria è l’anima delle composizioni, a carattere surreale, di Sergio Pausig riprodotte o, meglio, incarnate sulla tela. Ma anche e, ad'un tempo, la sapiente distribuzione del colore sulla superfice che regala virtuosismi fantastici, intrise di richiami onirici, che si scompongono e si ricompongono seguendo ricche esotiche trame orientaleggianti così da realizzare paesaggi immaginari, letterariamente, e simbolicamente, popolati da creature esotiche. Sperimentazioni palpitanti, dove appare possibile l’impossibile, per praticare esperienze fuori dal comune e, quindi eccezionali. E’ il vuoto che si riempie di vivaci efflorescenze che emergono dalla profondità del sogno e si allargano oltre i confini dell’accessibile annullando la fisicità fissata dal concetto di spazio e da quello di tempo. Lo spazio infatti, spinto dall’hybris creativa, tende a dilatarsi oltre i limiti del possibile, mentre il tempo viene strappato alle convenzionali cronologie che, tradizionalmente, ne scandiscono lo scorrere. Dunque, l’emergere di appaganti ectoplasmi, aspaziali e atemporali, liberati dal troppo spesso perverso gioco della storia che trovano, nell’atmosfera umbratile costruita attraverso l’uso sapiente delle sfumature di colore. Nuances di toni che degradano dal blu intenso all’azzurro accogliendo il fuoco intenso del rosso ruggine voluto per marcare il profilo di utopie stravaganti. Ed il risultato, paesaggi animati da pulsioni capaci di legare, ed esaltare, sentimenti che agitano e scuotono interiormente l’anima sensibile dell’artista con la nuda realtà, che è poi il suo habitat vissuto e, magari sofferto, idealmente costruito come sua naturale proiezione. "

Pasquale Hamel

Storico

 

 

"Le spirali del Tutto “

Questa tua vita che stai vivendo, non è soltanto un pezzo isolato dell’intera vita, ma in un certo senso essa è il Tutto; soltanto che questo tutto non è fatto in modo da poter essere abbracciato in un singolo colpo d’occhio. Questo, come sappiamo, è ciò che i bramini affermano in quella sacra, mistica formula che è tuttora davvero così semplice e chiara: tat tvam asi, “questo sei tu”. O, ancora, in parole quali: “Io sono a est e a ovest, io sono sopra e sotto, io sono questo intero mondo”. Con queste parole Erwin Schröedinger, il padre della meccanica quantistica, uno dei più acuti fisici teorici del ‘900, in un saggio illuminante sul tema del Che cosa è la vita? (1944) individuava il senso più recondito dell’esistenza delle cose in quel codice di regole programmato geneticamente in ogni singola molecola del vivente. È grazie a questo codice trasmesso dall’evoluzione che la molecola resiste all’inerzia necessaria del caos che la circonda, cioè alla morte: grazie ad esso la molecola si aggrega ordinatamente ad altre molecole per costituirsi in un insieme di vita ordinata. Ed è sempre grazie a questa “scrittura interna” che ogni particella vivente in sé contiene l’ordine del Tutto. Nell’affermare ciò, Schröedinger si riallacciava alle teorie dell’Uno e del Molteplice, condivise da varie culture filosofiche antiche come l’indiana e il neoplatonismo La pittura di Sergio Pausig, non diversamente dalle parole di Schröedinger, ma con un linguaggio visivo denso di immaginifica meraviglia, ci conduce direttamente alle soglie della sorgente della Vita e del Tutto. La creazione artistica è, infatti, un miracolo che riesce a farci intuire e a farci immaginare cose che ancora non conosciamo o che non contempliamo direttamente. In un’atmosfera sospesa, senza tempo, un tempo che non è ancora né passato né futuro perché è il tempo stesso della creazione (ovvero dell’Origine), le figure accennano a muoversi, staccandosi dallo sfondo per andare incontro alla loro esistenza. Esse palpitano su sfondi colorati ma soffusi, come in un’alba perenne della Vita che è appena sorta e che aspetta che la forma delle figure si delinii, si compia definitivamente. Si comprende come le numerose figure plantiformi che appaiono nei dipinti di Pausig non stiano aspettando altroche ciascuna la propria Metamorfosi, quella che è stata determinata, che è stata scritta ab origine nel libro della Vita per lei e solo per lei, affinché in lei l’Ordine resista al Caos. Un microcosmo organico ci viene dunque incontro guardando i dipinti di Pausig, e richiama l’esistenza del Tutto: come avviene ad esempio nell’Albero della vita, immaginifico dittico che rinvia al tema caro alla millenaria cultura ebraica, quello dell’immanenza e della ciclicità dell’Universo e delle sue leggi, le quali trionfano infine anche nell’intelletto umano capace di comprenderle e di rappresentarle. Si potrebbe affermare, con una provocazione, che Pausig sia un “paesaggista”: solo che egli non rappresenta paesaggi conosciuti, bensì paesaggi arcaicissimi. I paesaggi di Pausig, infatti, leggono la realtà di un mondo originario, privo ancora della visione logocentrica dell’Uomo, vedono la realtà microscopica della Vita nascente, raccontano l’origine delle cose, ci comunicano l’emozione di assistere a quel miracolo che è l’esistere e che si ripete in noi in ogni istante; perché noi siamo fatti di quello stesso miracolo realizzatosi quasi cinque miliardi di anni fa e che si attua in noi incessantemente, producendo la Legge e cancellando il Caos, producendo vita e resistendo all’inerzia della morte. L’opera di Pausig rappresenta quest’essenza profonda, e lo fa con grazia e con una speciale vocazione estetica: anche laddove le sue figure potrebbero apparire come una coltissima citazione di certo decorativismo klimtiano, ci accorgiamo invece che esse hanno una cifra stilistica assolutamente propria e originale: le figure rompono ogni schema decorativo, si muovono sempre, fremono, non si fermano mai. Si tramutano e di questa metamorfosi si nutrono e vivono. Il Movimento è la loro principale essenza. E anche le loro consistenze, spesso diafane, trasparenti – grazie alla sapienza delle velature pittoriche – ci comunicano la perenne trasformazione cui sono soggette che è insieme causa di meraviglia e di dramma: il dramma della lotta incipiente della forma che prende il sopravvento sul disordine. V’è una grande sapienza nell’uso delle figure vegetali nella tradizione pittorica musulmana ed ebraica: perché in esse v’è assai più della decorazione. V’è l’iscrizione di un’idea filosofica e teologica: il rispecchiamento, nell’immagine artistica, della Vita del Tutto. Le figure spiraliformi e tondeggiani, presenti in gran parte delle raffigurazioni orientali, simboleggiano l’idea della continuità della vita che rinasce da se stessa: esse realizzano l’immagine dell’infinità stessa della vita che nasce e muore, creando un perenne collegamento di tutte le creature tra loro; rappresentano in ogni contesto – dal tessuto alla maiolica, alla pittura muraria o su legno - il Molteplice manifestamente presente nel mondo naturale, ma riconducibile a quella divina Unità che è poi il senso stesso del creato. Ed è con questo spirito esoterico, profondo, mistericamente sapiente, che l’artista richiama nelle sue opere la cultura dell’Arabesque, figura nella quale la stessa forza motrice dell’universo si nasconde: questa forza eterna e immanente è ciò che i miti tradizionali chiamano Dio, movimento originario e inestinguibile creatore della vita che anima il mondo.“L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile” affermava Paul Klee. E l’arte di Pausig riesce in quest’impresa in cui solo la vera arte riesce a trasmettere, all’immaginazione di chi guarda, la rappresentazione dell’essenza della vita, quella vita di cui, anche chi guarda è partecipe biologico. Ed è proprio negli occhi di chi guarda che si chiude - per riavviarsi senza soluzione di continuità in un circuito di estetica perfezione - il ciclo stesso della vita.

 

Anna Li Vigni

Storico dell’arte

"El Árbol de la Vida"

L’Albero della Vita della tradizione ebraica, probabilmente già presente in culture antiche, apparve in seno alle scuole rabbiniche nel III secolo per poi diffondersi più globalmente nel XIII secolo, in particolare nel sud della Francia e della Spagna. Pur in forme differenti, la sua essenza rappresenta le leggi dell’Universo che regolano l’atto creativo nel Macrocosmo (l’Universo) come nel Microcosmo (l’Essere Umano). L’arte figurativa risulta influenzata da tale suggestione e, fra tutte, emerge l’interpretazione de L’Albero della vita di Gustav Klimt, realizzato tra il 1905 e il 1909 a Bruxelles. Alcuni degli elementi lì rappresentati si possono leggere oggi nella visione dell’albero della vita realizzata da Sergio Pausig: l’attenzione per la natura e per le sue forme e colori, per la ricchezza del suo rinascere continuo ma anche per l’incredibile necessità della sua architettura. Una pianta rigogliosa e sognante, quella di Pausig nel suo “El Árbol de la Vida”, che si articola in due pannelli separati (120 cm di base e 204 cm di altezza), tenuti insieme da tre elementi circolari, quasi monete preziose che sembrano essere il perno di un albero negato, dal momento che il suo fusto è una fascia bianca: inesistente, cancellato, sottratto. Un albero senza corpo né radici, che più che suggerire l’idea di stabilità, di radicamento e forza, fa pensare maggiormente alla sua capacità di adattamento, alla sua fluidità e morbidezza, alla tensione verso l’espansione. I frutti e le foglie sono microorganismi palpitanti e vitali, che si agitano al sorgere di un nuovo giorno, di un’alba chiara e calda. Un risveglio della natura declinato in gialli solari, rossi fuoco e verdi marezzati. Anche il titolo, recitato in spagnolo, come spesso nell’opera di Pausig, richiama influenze esotiche e tropicali, tratte dall’esperienza diretta di nature lussureggianti vissute in Sud-America e, in particolare, in Colombia. Se alla tela, supportata da una struttura lignea, è riservata la parte vitale ed espansiva del gesto creativo, è nella serie dei disegni, che completa il progetto “El Árbol de la Vida” di Pausig, che troviamo il dettaglio, la precisione scientifica di questa avventura straordinaria. La scelta di spostare lo sguardo al particolare, quasi come se analizzato al microscopio, porta l’attenzione alla complessità e alla precisione che sottende la natura e i suoi meccanismi vitali, dove nulla è causale né senza uno scopo preciso. Ricchi di dettagli e di presenze, i 12 tavole di Pausig fungono da lenti di ingrandimento del frame work generale. Ed è proprio questo il senso dell’albero della vita, come sintesi di un’alternanza necessaria-universale e individuale–di concetti e dettagli, di vuoti e pieni, di positivo e negativo. Un significato che Pausig, che vive tra il Nord e il Sud d’Italia e a cavallo tra cultura mitteleuropea e cultura mediterranea, conosce bene e che porta nel suo lavoro con armonia ed intensità.

 

Marta Moretti

Storica

 

 

Da “El Árbol de la Vida” a “Le Cheval dans

l’Ile de Melita à la recherche de la Croix”

 

In toni alchemici si dipana sempre l’opera di Sergio Pausig. Tutto è trasformazione, elevazione, lenta scoperta verso rubedo. Il carattere aureo sta perfino nel nome, ché “Quando viene lodato, il pavone allarga i suoi colori splendenti come pietre preziose, soprattutto mettendosi contro il sole, perché così risplendono con più fulgore. Nello stesso tempo, incurvando la coda a forma di conchiglia, cerca effetti di ombra per gli altri colori, che nell’oscurità brillano più chiaramente, e raccoglie tutte le sue penne munite di occhi, e gode che questi siano visti” (Plinio, Storia naturale, X, 43-44, trad. It. Elena Giannarelli). L’oro che qui vien cercato è la manifestazione di un “tutto pieno”, epifania del paesaggio mediterraneo, obliquo verso il nord est da cui l’autore giunge (Gorizia l’asburgica, Venezia repubblicana, mercantilistica e libertina), zenitale al centro, nell’isula ranni che è Sicilia. Ma la grandezza dell’isola, bada bene, lettore, non è quella oleografica e stracca dei gattopardi, noiosamente adagiati sul palinsesto delle sue molte culture; essa è tutta paesaggio, sinestesia, colore. Un ingrediente che Pausig padroneggia benissimo, da esperto cabalista, è la materia fratta nel mortaio, scarabattolo di polveri pigmentose, aromati che, e minerali preziosi: lapislazzuli, turchesi oltremarini, legni brasili, cocciniglie, cortecce, galle (Una pianta rigogliosa, pigmenti e lacche, 50x70 cm 2001). Nel crogiolo del suo studio d’artista le mescole tintorie si legano alla tela con estrema lentezza e me todo. Il quadro resta a cavalletto per mesi, perché i processi di aggregazione e trasformazione della materia diano i migliori frutti e brillino di una luce interna. Per tale via le sue opere assorbono, hanno la medesima forza centripeta delle fasi oniriche notturne, quando lentamente sprofondiamo verso un centro indefinito entro cui si liberano infinite traiettorie favolistiche. Cosa sei in quel tempo, dove ti trovi? Che viluppo di fitta vegetazione e splendore! «Là, tout n’est qu’ordre et beauté, / Luxe, calme et volupté. / Vois sur ces canaux / Dormir ces vaisseaux / Dont l’humeur est vagabonde; / C’est pour assolvi / Ton moindre désir / Qu’ils viennent du bout du monde. / — Les soleils couchants / Revêtent les champs, / Les canaux, la ville entière, / D’hyacinthe et d’or; / Le monde s’endort / Dans une chaude lumière.» (Charles Baudelaire, L’invitation au voyage, in Les Fleurs du mal, Auguste Poulet-Malassis, Alençon, 1857, sezione, Spleen et Idéal, n. 53). Né mi pare secondario il fatto che l’artista si cimenti a più riprese con la tradizione ebraica (Cfr. Venice/Alphabets, 2017) che di quella calma, di quella voluptas, è maggior foriera nel paesaggio molle, lagunare, veneto entro cui egli si è formato in età giovanile. Tutto questo per dire che i gradi d’assorbimento verso le sottili luci umbratili nel fitto della vegetazione “decorativa”, «la peinture décorative proprement dite, telle que l’ont comprise les Egyptiens, très probablement les Grecs et les Primitifs, n’est rien probablement les Grecs et les Primitifs, n’est rien autre chose qu’une manifestation d’art à la fois subjectif, sythétique, symboliste et idéiste» (Albert Aurier», Le Symbolisme en peinture. Paul Gauguin, «Le Mercure de France», marzo 1891, I semestre, p. 209) e surrealista a cui egli ci invita, sono anche il percorso cabalistico che s’impone a chi voglia meditare il proprio landscape interiore e, se possibile, raggiungerlo per contemplazione. Un paesaggio che Pausig ha percorso e reso tangibile a più riprese: anni addietro nei Taccuini del Mediterraneo (2009-2011), mostra itinerante minuta, lenticolare, che come una rete a strascico si arricchiva ad ogni stazione di sempre nuovi contributi, relazionando del Mare nostrum in forme visive e poetiche su classici Moleskine da viaggio; più di recente in Danubius umbratilis (2017-2018), omaggio pittorico a Claudio Magris e alle sue peregrinazioni letterarie lungo il corso del fiume storicamente più saturo della Mitteleuropa. A mio avviso, tale è la stesura di fondo, l’imprimitura nel catalogo d’opere di Sergio Pausig. L’omaggio a Klimt – che qui ritorna da un progetto del 2012-2014 – non a caso prende spunto da l’albero della vita, ovvero dal ceppo fondamentale della scrittura veterotestamentaria su cui è poi imperniata la teofania di Cristo in gran parte della civiltà giudaico cristiana d’occidente. Dal sottofondo biblico, però, tanto Klimt che Pausig si distaccano volontariamente, facendo in modo che esso non sia la sola causa agente della nostra condizione adamitica, ma torni ad una funzione pretestuale, omnipervasiva, diffusiva, dativa senza compromessi o cadute. Era ciò che il viennese auspicava per la sua epoca in Palazzo Stoclet a Bruxelles, negli anni che presagivano la fine del grande impero prussiano disegnato da Federico II, prossimo alla disfatta nella Prima Guerra Mondiale. È ciò che riecheggia nell’omologo dittico dell’asburgico Pausig, campito anch’esso su un fondo luminosissimo, caldo, incardinato a tre monete d’oro come un tributo. Ma il mio compito primario è rivolto alla seconda parte del catalogo qui proposto, dedicato a una figura totemica dell’opera di Pausig: il cavallo. La parte iniziale di questa lunga meditazione principia dalla proficua collaborazione dell’autore con Oskar Kogoj nel progetto Lipicanec del 2012. Allora i due si cimentavano con la razza equina tipica di Lipica (nei territori fra Trieste e la Slovenia), una di quelle nobili schiatte che hanno fatto la fortuna della cavalleria e delle imprese militari europee d’età medievale e moderna. La sua livrea, l’eleganza del passo e dell’incollatura, venivano ricomposti da Kogoj in superfici polite di ceramica che Pausig decorava a terzo fuoco con un’emblematica minuta, attinta alla medesima materia immaginifica di cui sono fatti i suoi “paesaggi arcaicissimi” (Li Vigni). Tornare a cimentarsi con cavallo e cavaliere ora, in Le Cheval dans l’Ile de Melita à la recherche de la Croix, significa affondare il colpo nel corpo molle e vetustissimo della cristianità al centro del Mediterraneo. Farlo da un presidio come Malta significa essere ben consapevole del ruolo storico che l’isola, un tempo parte del Regno di Sicilia, ha avuto dai tempi delle crociate in avanti. Ma significa, di più, riappropriarsi di un codice segnico particolare che tanta parte ha avuto nella storia europea e cristiana dell’antichità. Il cavallo per un cavaliere è tutto, la simbiosi in cui i due vivono è tale da non consentire distinzione di sorta; il processo di nobilitazione del gentiluomo passa attraverso un dialogo costante, una relazione empatica con l’animale senza la quale la stessa formazione pedagogica del principe cristiano sarebbe impossibile a farsi. Essere cavaliere e ben governare, in definitiva sono le due facce della stessa medaglia: la somma di tanti fattori educativi di cui il cavallo è forse la parte maggiormente esposta. Non a caso le sorti della cristianità nei suoi tempi più tribolati è affidata agli Ordini e le più alte onorificenze delle corone europee sono sempre, ancora oggi, d’ordine cavalleresco. In Cavallo e cavaliere (Donzelli ed., Roma 2003) Amedeo Quondam ci aiuta in modo esemplare a comprendere il valore della cavalcatura, dell’armatura e delle armi, il carattere d’insegna che essi rivestono nel forgiare il senso della nobiltà e dell’onore in età moderna. Pausig riafferma codesti ingredienti in una serie di opere che possiamo considerare una precisa linea di confine; qualcosa che non appartiene, tuttavia, alla delimitazione dei territori fisici, culturali o religiosi che siano; quanto, piuttosto e nuovamente, ad una “prospettiva de’ perdimenti”. Mi soffermo primariamente su Le Cheval V, disegno su imprimitura a gesso del 2018 che sfonda verso un non dove pulviscolare e tenue, fin dove l’occhio può immaginare di vedere. Oppure su Le Cheval avec le Croix Maltaise (2018), in cui le diverse campiture crociate si stagliano sullo sfondo come plus ultra, un andare oltre che contraddice l’estremo finis terrae e, se possibile, riafferma il carattere ecumenico e cosmopolita dell’impresa cristiana contemporanea. La texture che ne deriva non dista dall’antica dalmatica del patriarca bizantino; una medesima “tunica di fuoco” ci riveste, abito che Cristina Campo indica come Via contemplativa ed assorta alla risoluzione dell’uomo e della sua complessità labirintica. Forse è per questo che il cavallo e la croce dissolvono anch’essi in labirintico e vaporoso gioco di specchi (La Croix de Melita, 2018). Emblematici della civiltà occidentale, s’innervano a vicenda in assidua ed irrisolta ricerca di un senso.

 

Vittorio Ugo Vicari

Storico dell’arte

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